Responsabilità medica: condizione patologica preesistente del paziente e rivalsa della struttura sanitaria sul medico

In tema di responsabilità sanitaria vengono spesso affrontate due questioni che, seppur differenti fra loro, impegnano particolarmente le difese dei medici coinvolti in richieste risarcitorie inviate da loro pazienti per presunti danni da malpratice.

Entrambe sono state compiutamente trattate in una recente pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 29001/21), che di fatto ha enucleato alcuni principi di carattere generale, a cui si può fare ricorso ogni qual volta vengano in rilievo situazioni del genere.

La valutazione della condizione patologica preesistente del paziente

Come detto, la prima questione attiene alla valutazione delle conseguenze lesive provocate da un eventuale errore medico quando ci si trovi, come avviene in taluni casi, davanti ad un paziente già portatore di un’importante riduzione della propria capacità psico-fisica a causa di preesistenti patologie di cui risultava affetto da tempo. La Corte, nel suo richiamato pronunciamento, ha rievocato i suoi recenti approdi sul tema, ripetendo che la menomazione preesistente può essere concorrente o coesistente col maggior danno cd. biologico causato dall’eventuale illecito commesso dal sanitario.

Distinguendo le due categorie, ha quindi osservato che:

  • sono “coesistenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti non mutano per il fatto che si presentino sole o associate ad altre menomazioni, anche se afferenti ai medesimi organi;
  • sono, invece, “concorrenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti sono meno gravi se isolati, e più gravi se associati ad altre menomazioni, anche se afferenti ad organi diversi.

Ciò posto le menomazioni “coesistenti” vengono ritenute irrilevanti ai fini della quantificazione del danno, mentre quelle concorrenti devono essere oggetto di approfondita valutazione. Per consentire un corretto apprezzamento del maggior danno, si dovrà quindi procedere stimando, da un lato ed in punti percentuali, l’invalidità complessiva dell’individuo (con relativa conversione in denaro) e, dall’altro, quella “ante sinistro” (anche in questo caso trasformata in moneta), con conseguente sottrazione della prima alla seconda, restando sempre salva la possibilità per il giudice di ricorrere all’equità correttiva.

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Il riparto di responsabilità fra struttura e medico ed i suoi effetti sull’azione di rivalsa

Il secondo aspetto concerne, invece, l’annosa questione del riparto interno di responsabilità fra struttura sanitaria e medico. Il  danneggiato, di fatto, potrà legittimamente indirizzare la sua pretesa anche nei confronti di un solo presunto responsabile civile. In questi casi, la responsabilità della struttura è considerata per fatto proprio, avendo volontariamente incaricato l’ausiliario della prestazione necessaria per la corretta esecuzione dell’obbligazione assunta con il paziente.

Ciò significa che il coinvolgimento del medico è funzionale all’adempimento del contratto fra struttura e paziente, e l’eventuale giudizio di rivalsa (meglio ancora, di regresso) della struttura nei confronti del sanitario dovrà seguire i criteri previsti dall’istituto della responsabilità solidale, in virtù del quale chi abbia pagato l’intera somma ha diritto di rivalersi sugli altri corresponsabili, secondo la misura della rispettiva responsabilità, fatto salvo il riparto in quote uguali in assenza di prove specifiche.

Nel rapporto fra medico e struttura, si osserva come la condotta eventualmente negligente del primo non potrà decontestualizzarsi dall’ambiente dove si trova, né rimanere insensibile alle scelte organizzative e di politica sanitaria svolte dalla struttura mentre – come afferma la Corte – “l’art. 1228, cod. civ. fonda a sua volta l’imputazione al debitore degli illeciti commessi dai suoi ausiliari sulla libertà del titolare dell’obbligazione di decidere come provvedere all’adempimento, accettando il rischio connesso alle modalità prescelte, secondo la struttura di responsabilità da rischio d’impresa (“cuius commoda eius et incommoda”) ovvero, descrittivamente, secondo la responsabilità organizzativa nell’esecuzione di prestazioni complesse”.

Questa responsabilità – secondo la Corte – è propria nel rischio che ci si assume quando, per offrire la prestazione a cui si è obbligati (in questo caso a contenuto diagnostico-terapeutico), ci si avvalga dell’opera altrui, dovendo quindi rispondere anche dei danni eventualmente provocati a terzi.

Per questi motivi diviene allora insostenibile la tesi del diritto di rivalsa integrale della struttura nei confronti del sanitario dato che, diversamente opinando, la struttura si troverebbe nella paradossale (e, soprattutto, oltremodo conveniente) situazione di non assumere alcun rischio d’impresa, se non quello di insolvibilità del medico, qualora costui fosse convenuto dal paziente per il risarcimento del danno.

I limiti della soluzione

Chiaramente, questa soluzione trova un limite nel caso in cui l’azione od omissione del medico risulti di tale straordinaria gravità, e quindi del tutto imprevedibile, da risultare completamente estranea al contenuto ordinario della pianificazione delle attività terapeutiche e di diagnosi adottate dalla struttura per la gestione dei casi clinici. Quest’ultima, per non vedersi ascritta alcuna quota di risarcimento, dovrà dunque dimostrare:

  1. non soltanto la colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno, ma la derivazione causale di quell’evento dannoso da una condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un’ottica di ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei rapporti interni;
  2. che alla descritta colpa del medico si affianchi l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze nell’adempimento del contratto di spedalità da parte della struttura, comprensive di controlli atti a evitare rischi dei propri incaricati”.

 

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