Il pubblico impiego non è esente da problemi di precariato, anzi, sempre più spesso si assiste all’abusivo ricorso da parte della pubblica amministrazione dello strumento della contrattazione a tempo determinato (contratto di lavoro a termine) per ovviare alla cronica carenza di personale, eludendo in tal modo il principio, costituzionalmente previsto nell’art. 97, del concorso pubblico, con conseguenti vantaggi anche in termini di contenimento della spesa pubblica.
Il ricorso allo strumento del contratto di lavoro a tempo determinato è sorto per sopperire ad esigenze produttive ed organizzative necessariamente temporanee, per cui rappresenta l’eccezione a quella che, invece, dovrebbe essere la regola del contratto a tempo indeterminato.
La normativa cardine su cui si poggia questa problematica riguarda, da un canto, il già richiamato art. 97 Cost. e, dall’altro, il disposto di cui all’art. 36 della l. n. 165/2001, diretta promanazione del primo, che regolamenta la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo determinato nella P.A.. In questo articolo vengono specificatamente descritte le ipotesi tassative in cui è possibile fare ricorso allo strumento del contratto di lavoro a termine, tutte sostanzialmente riferibili ad esigenze di tipo eccezionale e temporaneo, e si conferma il divieto di costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato in violazione dei criteri concorsuali.
Per quanto concerne la normativa comunitaria, occorre invece far riferimento all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (contenuto nella direttiva 1999/70/CE) che, concluso con UNICE, CEEP e CES, ha introdotto alcune regole generali volte a prevenire gli abusi derivanti dall’illegittima successione di contratti a tempo determinato, da cui la clausola n. 5 che detta le misure che gli Stati membri debbono accogliere per garantire tale finalità.
La giurisprudenza comunitaria si è più volte interessata dell’applicazione di tali argomenti, precisando che in caso di reiterazione di contratti a termine:
Di recente, le stesse SS.UU. (con la sentenza 5072/16) si sono espresse sul punto ribadendo, da una parte, il divieto di conversione del rapporto di lavoro illegittimo in un contratto a tempo indeterminato e, dall’altra, che nel caso in cui questi rapporti si siano protratti oltre i 36 mesi (anche in modo non continuativo) si è in presenza certamente di un danno risarcibile che, definito “comunitario”, viene generalmente calcolato ex art. 36, comma 5, della l. n. 183/2010 in misura forfettaria (da 2,5 a 12 mensilità rispetto all’ultima retribuzione globale di fatto ex art. 8 l. 604/1996), con conseguente esonero dal relativo onere probatorio, eventualmente aumentabile qualora venga dimostrata l’effettiva sussistenza della perdita di chance.
A questa pronuncia ne sono poi seguite molte altre, da ultimo Cass. Civ. Sez. Lav. n. n. 7060/18 e Cass. Civ. Sez. Lav. n. 7440/18, con cui si conferma che la reiterazione di contratti a tempo determinato, ancorché in modo non continuativo, si pone comunque in violazione della normativa comunitaria, con conseguente diritto per il lavoratore ad ottenere il ristoro del danno cd. presunto, salva la possibilità di dimostrare un maggior pregiudizio patito.