Uno dei profili più dibattuti della responsabilità sanitaria, peraltro acuito dalla sempre più crescente autonomia dei singoli professionisti che intervengono, in modo multidisciplinare e settorializzato, nella cura di un paziente, riguarda la corretta imputazione delle responsabilità, avuto riguardo alla condotta effettivamente tenuta da ciascuno ed al pregiudizio causalmente derivatone.
Questa cooperazione che si viene a configurare fra le molteplici condotte sanitarie, e che può vedere coinvolti sia medici che altre categorie professionali, può realizzarsi sia in modo sincronico, quando diversi operatori agiscano in modo contestuale, che in forma diacronica, qualora invece gli atti siano in successione cronologica fra loro, tutti avvinti comunque dal medesimo obbiettivo: il miglioramento delle condizioni cliniche del paziente.
Ogni qual volta più professionisti sanitari vengano ad occuparsi contestualmente (o in successione fra loro) del medesimo paziente si ritiene che, per poter fornire la migliore prestazione possibile, ciascuno debba concentrare ogni suo sforzo sulla propria specifica attività, confidando nel buon operato sia di coloro che l’hanno preceduto nel trattamento terapeutico che in quelli che successivamente se ne occuperanno, non potendo chiaramente rispondere, in linea generale, dell’operato altrui.
Va però ricordato che il principio di affidamento, in ogni forma di cooperazione, non potrà essere sempre invocato dal singolo partecipante, soprattutto in quanto la condotta colposa imputabile al collega venga a realizzare una violazione del comune bagaglio tecnico di qualsiasi professionista tale da poter essere agevolmente rilevata, con la conseguente prevedibilità e rilevabilità dell’errore altrui anche da parte di soggetto non specializzato nel settore.
A questo si unisce il fatto che il sanitario, che prenda in carico il paziente per l’esecuzione della prestazione a sé spettante, non possa non conoscere e conseguentemente controllare l’attività svolta dal collega, per cui il principio di affidamento deve sempre e comunque contemperarsi con l’obbligo di garanzia verso il paziente, che si mantiene a carico di tutti i sanitari che partecipano contestualmente o successivamente all’intervento terapeutico complessivamente inteso.
Pertanto, al professionista sanitario è richiesto sia di osservare i canoni di diligenza e prudenza propri della prestazione connessa alla sua specialità, ma anche di vagliare con altrettanta attenzione e cura l’esattezza dell’attività svolta dai professionisti che l’hanno preceduto.
Nell’ambito dell’attività in “équipe”, a cui può essere assimilata anche la situazione di più sanitari che si vengano ad occupare in successione dello stesso paziente, la Corte di Cassazione ha più volte osservato che l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali.
Rientra quindi tra gli obblighi di ogni singolo componente di una “équipe” chirurgica, sia esso in posizione sovra o sotto ordinata, anche quello di prendere visione, prima dell’operazione, della cartella clinica contenente tutti i dati per verificare la necessità di adottare particolari precauzioni imposte dalla specifica condizione del paziente ed eventualmente segnalare, anche senza particolari formalità, il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate e alla scelta stessa di procedere all’operazione, potendo solo in tal caso esimersi dalla concorrente responsabilità.
In un noto precedente, si è specificatamente escluso che il chirurgo che si sia fidato acriticamente della scelta del collega più anziano, pur essendo in possesso delle cognizioni tecniche per coglierne l’erroneità, possa legittimamente invocare l’esclusione da responsabilità, mantenendo su di sé il dovere di valutarla e, se del caso, finanche contrastarla nel modo ritenuto più opportuno per impedire il verificarsi dell’evento.
Questo non significa che il professionista sanitario sia tenuto a vigilare costantemente sulle azioni altrui, interferendo continuamente sul loro operato e sulle scelte terapeutiche attuate, ma rimane comunque fermo l’obbligo, sempre gravante su di lui, di esprimere il proprio motivato dissenso tutte le volte in cui ritenga opportuno evidenziare un diverso apprezzamento rispetto alle condizioni cliniche del paziente, ovvero ancor più rilevare un errore individuato al momento della presa in carico dello stesso.
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Come ricordato dal Supremo Collegio in un suo recente pronunciamento (sent. n. 16094/2023), soltanto il corretto controllo sull’operato e gli errori altrui in base alle conoscenze che il professionista medio deve avere, assolve la dimostrazione dell’obbligo di diligenza cui è tenuto il medico cui è affidata una posizione di garanzia, che travalica il ristretto perimetro delle proprie mansioni.
Un ultimo breve accenno sulla forma che deve rivestire il dissenso per poterlo considerare utilmente assunto ai fini dell’esonero dalla possibile responsabilità del partecipante all’équipe.
Secondo la più recente giurisprudenza, il medico componente della équipe chirurgica in posizione di secondo operatore, che non dovesse condividere le scelte del primario adottate nel corso dell’intervento operatorio, mantiene l’obbligo, per esimersi da responsabilità, di manifestare espressamente il proprio dissenso, senza che tuttavia siano necessarie particolari forme di esternazione dello stesso.
Ne consegue che, per poter esprimere il proprio dissenso, non sia necessario (quale che sia il ruolo ricoperto) adottare particolari forme, ovvero ricorrere a modulari specifici, piuttosto ciò deve avvenire in modo chiaro ed esplicito venendo valutata l’idoneità della forma di dissenso impiegata avuto riguardo al contesto in cui questa opinione venga resa manifesta, dovendo necessariamente distinguersi tra la situazione in cui si procede a scelte puramente terapeutiche a quella di tipo operatorio.