La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9949/21, torna nuovamente ad occuparsi della questione relativa ai criteri che devono presiedere, nell’ambito dei giudizi di responsabilità sanitaria, il riparto probatorio riguardo al nesso causale tra l’insorgenza della patologia, od il suo aggravamento, e la condotta tenuta dal medico.
Anche in questo caso, viene riaffermato quell’orientamento, ormai consolidato dopo le prime pronunce rese dalla Terza Sezione (n. 18392/2017, n. 29315/2017), per il quale l’accertamento del nesso causale e, soprattutto, i rispettivi oneri rispondono ad esigenze riferibili agli opposti protagonisti del rapporto di cura (cd. “doppio ciclo causale”).
Ciò significa che, trattandosi di fatto costitutivo del suo diritto, il paziente deve dapprima allegare la ricorrenza di un inadempimento astrattamente qualificato a produrre l’evento lesivo, per poi dimostrare, secondo il criterio funzionale del “più probabile che non”, l’esistenza del nesso causale fra l’azione od omissione del sanitario incriminato e l’evento dannoso patito.
Solo quando tale prova sarà concretamente raggiunta, verrà quindi in rilievo (così rappresentando una seconda fase del processo valutativo del magistrato) il contrapposto e successivo onere probatorio, questa volta a carico del sanitario (o della struttura) trattandosi di fatto estintivo del diritto, di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente e che l’esito infausto è stato provocato da un evento imprevisto ed imprevedibile, ovvero che la stessa prestazione era comunque impossibile per causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza.
In altre parole, l’accertamento del nesso causale avrà una duplice natura vertendo, sotto il profilo del paziente, sulla prova del collegamento eziologico tra condotta ed evento e, sotto quello del medico, della dimostrazione che una causa imprevista ed imprevedibile ha reso impossibile la prestazione che, altrimenti, sarebbe stata possibile e quindi dovuta.
Le conseguenze di un tale approdo giurisprudenziale non sono certo di poco conto, soprattutto quando la causa del danno dovesse rimanere incerta all’esito dell’istruttoria processuale.
Infatti – come viene ripetuto anche dall’ultima pronuncia in commento – “mentre la “causa incognita” resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, la possibilità di adempiere resta a carico del convenuto, ove il primo elemento sia stato adeguatamente provato. Se al termine dell’istruttoria resti incerta la causa del danno (come accertato nel caso concreto), o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto”.
Sostenere allora che l’incertezza sulla sussistenza del nesso causale tra l’evento dannoso e la condotta pregiudizievole ricade, sempre e comunque, sul medico (o sulla struttura) diviene allora un’argomentazione piuttosto fragile dovendosi, per contro, verificare su quale dei due profili causalistici venga ad incidere tale incertezza, con conseguente rigetto della domanda ogni qual volta rimanga oscura, all’esito dell’istruttoria processuale, la causa del danno invocato dal paziente.