La Corte di Cassazione ribadisce che nelle ipotesi in cui il datore di lavoro approfittando della sua posizione di vantaggio rispetto al lavoratore lo induca ad accettare condizioni inique e retribuzioni inadeguate sotto la minaccia, se pure celata, di licenziamento incorre nel reato di estorsione ex art. 629 del codice penale.
Con la sentenza 37248/22 la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha riformato una sentenza di appello, ritenendo ricorrenti gli estremi del reato di estorsione, disciplinato dall’art. 629 c.p., nella condotta del datore di lavoro che, approfittando delle condizioni del mercato del lavoro, costringe il lavoratore subordinato, con minaccia se pure non diretta di licenziamento, ad accettare trattamenti retributivi deteriori.
Nel caso specifico, i dipendenti svolgevano le proprie prestazioni ben oltre il limite orario previsto dal proprio contratto, espletando incombenze non inerenti alle loro mansioni, senza alcun riconoscimento economico per il surplus orario sostenuto, che talvolta arrivava anche venti ore giornaliere ininterrotte.
Nel corso della fase istruttoria, è emerso che il rispetto di siffatte condizioni lavorative, e quindi il mancato pagamento di qualsiasi maggiorazione rispetto alla maggior impegno richiesto, venisse posto come opzione alternativa alla prospettazione per i lavoratori della “libertà” di lasciare il proprio impiego.
In sede di appello, i giudici di merito non avevano però ritenuto configurabile il reato di estorsione, giacché le comunicazioni inviate, via mail dal datore, non evidenziavano un contenuto realmente minaccioso, essendo limitate a rappresentare la possibilità per il lavoratore, che non fosse d’accordo con siffatte direttive, di “…andarsene…”.
La Corte di appello ha quindi escluso la presenza della minaccia, considerando la possibilità di scelta lasciata al lavoratore, senza considerare però che nel reato di estorsione, la scelta è sempre rimessa alla vittima, che però è consapevole che nell’ipotesi in cui optasse per una scelta non conforme a quanto prospettato dal soggetto attivo si troverebbe a doverne subire le conseguenze, che nel caso di specie sarebbero state quelle del licenziamento. In sostanza nell’estorsione il reato si compie sempre con la cooperazione della vittima, mediante la coartazione della sua volontà.
Puntuale è però giunta la censura della Corte di Cassazione che, accogliendo il motivo di ricorso ha osservato appunto che è propria della minaccia la possibilità della scelta, ma nella consapevolezza che se questa fosse diversa da quella presentata dal soggetto attivo si concretizzerebbe il male ingiusto prospettato.
Ne – aggiunge la Corte – si potrebbe sostenere che le comunicazioni non contenessero un’espressa minaccia al licenziamento, sostituita dalla frase “è libero di andare via”, poiché così si perderebbe il senso specifico della frase che “pone il lavoratore di fronte all’alternativa di accettare le condizioni di lavoro imposte dal datore di lavoro o di perdere il lavoro, risultando indifferente che tale evenienza si possa realizzare per una decisione “volontaria” del lavoratore o a iniziativa del datore di lavoro”.
A questo si deve aggiungere che le condizioni di lavoro (poste come alternativa alla perdita dell’impiego) sono risultate pacificamente inique sia per il surplus orario richiesto, che per i compiti estranei alle mansioni previste, oltre che remunerate con una retribuzione del tutto inadeguata.
Viene quindi riaffermato il principio di diritto per cui “integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate”.
È opportuno sottolineare in questa sede che la sussistenza del reato era stata esclusa dai giudici di merito anche per la mancanza di una “peculiare condizione soggettiva della persona offesa” dovuta al contesto economico e all’ambito familiare di provenienza. Anche in questo caso la Corte di Cassazione però ha smontato la valutazione dei giudici di merito, ritenendo che il rilievo penale della condotta del datore di lavoro non possa essere legato alle condizioni economico- ambientali o personali del lavoratore. Il datore di lavoro che prospetta il licenziamento approfittando della sua naturale condizione di prevalenza sul dipendente e della condizione a lui favorevole del mercato di lavoro commette comunque un reato.