Orario di lavoro: nozione europea e conseguenze retributive

La tematica dell’orario di lavoro, apparentemente banale, continua ad essere oggetto di numerose vertenze lavorative, soprattutto a seguito dei diversi pronunciamenti resi dalla Corte di Giustizia Europea che, con cadenza periodica, torna ad esplicitare il proprio pensiero sui criteri di interpretazione della direttiva 2003/88 che, proprio all’art. 2 n. 1, definisce chiaramente i confini fra ciò che ricade nel tempo lavorativo e ciò che, invece, deve considerarsi fuori da questo ambito.

Definizione di orario di lavoro

Soffermandosi sul testo della norma comunitaria, si osserva come il discrimine non sia collegato all’esecuzione della prestazione oggetto del rapporto di lavoro, quanto piuttosto al fatto che il dipendente, sebbene non materialmente impegnato, sia a disposizione della parte datoriale per una qualsiasi attività.

Il richiamato art. 2 n. 1 della direttiva fornisce infatti la nozione di orario di lavoro, riconoscendolo in “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali”.

L’interpretazione comunitaria

Interpellata più volte riguardo alla legittimità o meno delle normative nazionali rispetto ai principi contenuti nella direttiva 2003/88, la Corte di Giustizia ha sempre voluto prioritariamente rimarcare come lo scopo di quest’ultima disciplina sia quello prevedere prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, garantendo maggiore sicurezza e salute, anche mediante previsioni dirette a stabilire periodi massimi di lavoro e conseguenti tempi di riposo.

Tutto questo per affermare che le diverse prescrizioni enunciate dalla richiamata direttiva costituiscono norme di diritto sociale dell’Unione, il cui godimento non può essere in alcun modo compresso, né dipendere da ragioni di carattere economico eventualmente addotte dagli stati nazionali per derogare al suo carattere precettivo.

Ne consegue allora che giammai le disposizioni della direttiva 2003/88 potranno essere oggetto di un’interpretazione restrittiva a discapito dei diritti che il lavoratore si vede riconosciuti dalla direttiva medesima.

Ripresa la nozione di orario di lavoro prima enunciata per essere letta in stretta correlazione con quella di periodo di riposo, viene quindi in evidenza come l’una sia la negazione dell’altra, escludendosi reciprocamente, senza che sia possibile ipotizzare alcuna categoria intermedia fra loro.

La Corte ha quindi considerato elemento determinante, per ritenere sussistenti gli elementi caratteristici della nozione di orario di lavoro ai sensi della direttiva 2003/88, il fatto che il lavoratore sia tenuto, per contratto o per disposizione datoriale, ad essere fisicamente presente sul luogo designato dal datore di lavoro e a rimanere ivi a disposizione di quest’ultimo al fine di poter fornire direttamente i propri servizi in caso di necessità (CGUE sentenza del 9 marzo 2021).

Questo significa che, per luogo di lavoro, deve intendersi qualsiasi posto in cui il dipendente è chiamato a svolgere una qualsiasi attività prevista dall’organizzazione datoriale, anche quando tale luogo non sia il posto in cui egli esercita abitualmente la propria attività professionale.


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Conseguenze per il lavoratore

Dalla definizione che precede, così come interpretata dalla giurisprudenza comunitaria (da ultimo, CGUE 28/10/2021), discende allora che, per orario di lavoro, non deve intendersi esclusivamente il tempo della prestazione effettivamente svolta dal dipendente, ma anche il periodo temporale in cui il lavoratore, seppur non direttamente impegnato nello svolgimento dell’attività propria della sua mansione, si trova a disposizione del datore di lavoro e presente sul luogo di lavoro.

Questo conduce a ritenere che persino il tempo trascorso dal dipendente all’interno dell’area aziendale per sottoporsi, ad esempio, a procedure di vestizione, riconoscimento, registrazione, autorizzazione all’accesso od altro, rientrano nell’ambito dell’espletamento delle attività funzionali alla corretta esecuzione della prestazione lavorativa e, quindi, necessariamente collegate a quest’ultime.

Il precedente favorevole della Corte di Appello di Milano: il tempo della registrazione è orario di lavoro

Proprio di recente si è assistito al puntuale recepimento di questo orientamento da parte della Corte di Appello di Milano, che si è pronunciata sulla richiesta di alcuni lavoratori i quali, dipendenti con contratti full time o part time, invocavano la declaratoria di parziale nullità e/o inefficacia della clausola dell’accordo aziendale stipulato tra la datrice di lavoro e CGIL, CISL e UIL, che modificava le condizioni di attestazione di inizio del lavoro dalla strisciatura del badge personale di servizio alla registrazione on line sui sistemi informatici aziendali collocati nelle rispettive postazioni lavorative, con conseguente condanna della società al pagamento delle somme quantificate per ciascuno di essi a titolo di differenze retributive per il lasso temporale intercorrente tra l’ingresso in azienda e l’inserimento delle credenziali di accesso nel pc, ritenendolo quale effettivo tempo lavorato.

Nel risolvere la disputa, la Corte ha quindi affermato, con sentenza n. 195/2023 ed in riforma dell’impugnata pronuncia del Tribunale meneghino, come il sistema di rilevazione dell’orario di lavoro fosse in contrasto con i principi dettati in materia di orario di lavoro, per come interpretati dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria.

Ebbene, richiamate le previsioni del D. Lgs. n. 66/2003 (attuativo della direttiva comunitaria n. 2003/88), si è quindi accolta la definizione della nozione di orario di lavoro, interpretata dalla giurisprudenza comunitaria, dovendosi così considerare ricompreso in questo tempo, non soltanto quello in cui il dipendente svolge la prestazione effettivamente prevista dal suo contratto, ma anche quello in cui si rende disponibile e presente sui luoghi di lavoro per eseguire tutte le operazioni ritenute strettamente funzionali alla prestazione medesima.

Pertanto, affermata la nullità parziale dell’accordo collettivo richiamato dai ricorrenti, la Corte ha quindi condannato la parte datoriale al pagamento delle differenze retributive calcolate considerando orario di lavoro tutti i periodi spesi da ciascun dipendente (nel caso specifico, 5 minuti in ingresso, 5 minuti in uscita, 2 minuti in pausa pranzo in uscita e 2 minuti in pausa pranzo in ingresso) per ogni giorno lavorativo con riferimento a lavoratori che effettuano la prestazione lavorativa full time, proporzionalmente ridotto riguardo ai lavoratori part time al 50%, con conseguente rimborso delle spese legali.

 

 

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