Le fattispecie di reato rientranti nel cd. cybercrime, ossia quelle condotte criminose che utilizzano le piattaforme digitali messe a disposizione dell’innovazione tecnologica sono in costante aumento, complice il continuo incremento dell’uso del web e soprattutto dei social network.
Fra i vari reati, alcuni anche piuttosto gravi, spicca per numerosità il delitto di diffamazione commesso tramite social network, caratterizzato molto spesso dall’inconsapevolezza di chi lo compie, che talvolta da dietro lo schermo di un pc percepisce una sorta di onnipotenza, mista alla convinzione che le proprie condotte illecite rimarranno impunite. Ma il web non è una zona franca e non lo è mai stata.
L’utilizzo di questi strumenti, ormai diventato di uso comunissimo anche fra i giovani adolescenti, impone l’adozione di una serie di cautele per evitare che un commento offensivo rilasciato su queste piattaforme di comunicazione possa poi degenerare nella commissione di un reato, con conseguenze davvero rilevanti.
Recentemente la Corte di Cassazione (sentenza 22049/2020) ha infatti chiarito alcuni elementi molto importanti per identificare talune fattispecie di reati informatici:
Art. 595 c.p. Diffamazione: se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.
Art. 494 co. 3 c.p. Sostituzione di persona: se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica con la reclusione fino a un anno.