L’azione di regresso della Casa di Cura nei confronti del medico: quali sono i limiti?

Nei giudizi di responsabilità sanitaria, non di rado il medico che ha praticato il trattamento sanitario censurato deve affrontare un duplice attacco processuale: da un canto, la domanda risarcitoria direttamente promossa nei suoi confronti dal paziente danneggiato e, dall’altra, quella di regresso intrapresa dalla casa di cura che, convenuta ugualmente dal medesimo cliente, intende riversare ogni potenziale effetto pregiudizievole derivante da una possibile condanna sul medesimo professionista, assumendone l’esclusiva responsabilità dell’accaduto.

A ciò si aggiunge l’ulteriore iniziativa, puntualmente dedotta dagli assicuratori chiamati in causa rispettivamente dalla clinica e dal medico, di veder limitata la loro eventuale esposizione debitoria alla quota di responsabilità effettivamente ascritta al proprio assicurato, con conseguente rigetto di ogni ulteriore somma a questi non direttamente imputata.

Le fonti di responsabilità del medico e della casa di cura

Per dare un quadro sintetico, ma essenziale, dei rapporti in gioco, vale ricordare che un paziente, che si ritenga danneggiato da un trattamento sanitario ricevuto, può legittimamente rivolgere le sue pretese economiche alternativamente contro la casa di cura o il medico esecutore, ovvero contemporaneamente nei confronti di entrambi.

Secondo le previsioni contenute nell’art. 7 della l. n. 24/17, i titoli di responsabilità sono però differenti atteso che, mentre la struttura risponde contrattualmente per il fatto proprio (ex art. 1218 c.c.) e per quello commesso da coloro di cui si sia avvalsa per l’esecuzione della prestazione fonte di danno (ex art. 1228 c.c.), il medico risponde ai sensi dell’art. 2043 c.c., e quindi per responsabilità extracontrattuale, sempre che non sia intercorso un rapporto pattizio stipulato direttamente con il paziente-cliente.

Questo implica che la casa di cura risponde sia per quanto a sé direttamente imputabile (ad es. infezioni nosocomiali conseguenti a carenza di controlli) sia per gli errori commessi dai propri ausiliari, sia che siano dipendenti o meno della struttura, sia che siano liberamente scelti dal paziente, ovvero svolgano la loro attività in regime di libera professione intramuraria o in convenzione con il Servizio sanitario nazionale (per citare gli esempi più ricorrenti).

La responsabilità solidale

Queste due fonti di responsabilità, seppur distinte fra loro e con conseguenze diverse riguardo al regime della prova e ai termini prescrizionali applicabili, si fondono in un unicum fornendo al paziente l’opportunità di invocare, ai sensi dell’art. 2055 c.c., la solidarietà passiva fra casa di cura e medico operatore che, in caso di accoglimento della domanda risarcitoria, saranno entrambi tenuti al pagamento a suo favore dell’integrale ristoro giudizialmente accertato.

Ciò significa che, nei confronti del paziente, non sarà possibile invocare la limitazione dell’esposizione debitoria alla sola quota di responsabilità ascrivibile alla propria condotta, essendo ciascun debitore (casa di cura o medico che sia) tenuto al pagamento dell’intero, salva la possibilità di richiedere, anche formulando apposita domanda di regresso nel medesimo giudizio, l’accertamento della responsabilità altrui e conseguentemente il rimborso delle maggiori somme eventualmente liquidate rispetto alla quota di responsabilità a sé ascritta.


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L’azione di regresso

A tal proposito, occorre però ricordare che angusti sono gli spazi di iniziativa consentito alla casa di cura che, di fatto, ben difficilmente potrà andare esente da qualsiasi giudizio di responsabilità per un fatto ascritto ad un medico che ha operato presso di sé, confidando sol per questo di poter scaricare su di lui ogni peso economico derivante da un possibile giudizio di condanna.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha, infatti, più volte affermato (Cass. n. 28987/2019) che in tema di azione di rivalsa, nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo dev’essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, secondo comma, e 2055, terzo comma, cod. civ., in quanto la struttura accetta il rischio connaturato all’utilizzazione di terzi per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale, a meno che dimostri un’eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell’obbligazione.

Per superare la descritta ripartizione di responsabilità non sarà quindi sufficiente dimostrare l’esclusivo inadempimento del medico ma, come espressamente ricordato dalla recente pronuncia n. 17405/2023, la casa di cura dovrà rigorosamente provare “non soltanto la colpa esclusiva del medico rispetto allo specifico evento di danno, ma la derivazione causale di quell’evento dannoso da una condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un’ottica di ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei rapporti interni”.

Inoltre – e qui si sottolinea fortemente il ruolo prioritario ed incomprimibile dalla casa di cura – quest’ultima, per superare la presunzione di parità delle quote, dovrà “dimostrare, ferma l’impossibilità di comprimere del tutto quella della struttura, eccettuata l’ipotesi sub a (ossia quella descritta al precedente capoverso) che alla descritta colpa del medico si affianchi l’evidenza di un difetto di correlate trascuratezze nell’adempimento del contratto di spedalità da parte della struttura, comprensive di controlli atti a evitare rischi dei propri incaricati, da valutare in fatto, da parte del giudice di merito, in un’ottica di duttile apprezzamento della fattispecie concreta”.

 

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