Diffamazione tramite Facebook e WhatsApp.

Il delitto di diffamazione è punito dal primo comma dall’art. 595 del codice penale nei termini che seguono: “Chiunque, fuori  dei  casi  indicati   nell’articolo   precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino  a  un  anno  o  con  la  multa  fino  a  lire diecimila”. Il medesimo articolo prevede, nel suo terzo comma, un’ipotesi di diffamazione aggravata che ricorre qualora l’offesa sia recata “col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in  atto  pubblico”. In tal caso “la pena  è  della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a  lire cinquemila”.

Tale previsione rinviene la sua ratio “nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorchè non individuate nello specifico ed apprezzabili soltanto in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa” (Cass. pen., Sez. I, n. 24431 del 2015).

L’aggravante della diffusività del mezzo usato.

In siffatta prospettiva, quindi, l’ormai granitica giurisprudenza di legittimità nel riconoscere che il reato di diffamazione può essere commesso anche a mezzo di Internet, reputa, in tali eventualità, integrata l’ipotesi aggravata dell’uso di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”: invero, “con tutta evidenza, la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale” (Cass. pen., Sez. V, n. 4741 del 2000).

Il delitto di diffamazione su Facebook.

Alla medesima conclusione la Corte di Cassazione giunge anche in relazione alla “condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook”. Ciò in quanto tale condotta realizza “la pubblicizzazione e la diffusione” del commento “per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone comunque apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dal terzo comma dell’art. 595 c.p.” (Cass. pen., Sez. I, n. 24431 del 2015; Cass. pen., Sez. V, n. 8328 del 2016).

In tale ambito, i giudici di legittimità si sono, altresì, soffermati ad esaminare l’eventualità in cui tra i lettori del messaggio vi sia anche la persona cui si riferiscano le esternazioni offensive, ritenendo che tale circostanza non possa condurre a ritenere integrato l’illecito di ingiuria piuttosto che il delitto di diffamazione. Difatti, a prevalere è la circostanza che il messaggio risulti diretto ad una pluralità di fruitori e non in via diretta alla sola persona offesa.

Il delitto di diffamazione su WhatsApp.

E proprio tale riflessione giuridica si pone alla base della più recente giurisprudenza volta a ritenere integrato il delitto di diffamazione – e non l’illecito di ingiuria – nel caso in cui l’espressione offensiva dell’altrui reputazione sia contenuta all’interno di un messaggio versato in una chat di un “gruppo WhatsApp” (Cass. pen., Sez. V, n. 7904 del 2019).

Al riguardo, è bene precisare la necessità che sia, comunque, compiuto – caso per caso – un accertamento in concreto in ordine alla composizione quantitativa del “gruppo WhatsApp” in cui venga inserito il messaggio della cui valenza diffamatoria si tratti.

Si pensi al caso in cui all’interno della chat di un gruppo “WhatsApp” in cui siano presenti tutti i medici del Reparto di Chirurgia Vascolare dell’Ospedale Beta, uno di loro inserisca un messaggio in cui si lamenta apertamente dell’incapacità di un collega con un’espressione di questo tipo: “Io con il Dottor Sempronio non intendo più lavorarci: usa il bisturi peggio di un cane”.

E’ evidente, dunque, come un tale messaggio possa integrare una diffamazione proprio in ragione della destinazione del medesimo all’intera compagine di colleghi partecipanti alla chat, e ciò pur ove tra questi vi sia anche il Dottor Sempronio.

I termini per esercitare il diritto di querela.

Sul piano processuale, occorre ricordare che il delitto di diffamazione è procedibile solo a querela della persona offesa e, ai sensi dell’art. 124, comma 1, c.p., il diritto di querela deve essere esercitato entro il termine di “tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato”.

Contributo dell’Avv. Avv. Giacomo Scicolone dello studio Madia-Scicolone partner di C&P

 

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