La mera attesa presso la propria abitazione può essere considerata una vera e propria assistenza, qualora risponda alle esigenze manifestate dal beneficiario della medesima, o deve essere sempre considerata una violazione del principio di correttezza e buona fede da parte del lavoratore che utilizza i permessi della l. 104/92?
La Corte di Cassazione con la sentenza 16930 del 12 agosto 2020 ha risposto a questo interrogativo.
Nel caso oggetto della decisione in primo grado era stato ritenuto legittimo il licenziamento di una dipendente per violazione del rapporto di buona fede con il datore di lavoro a seguito dell’abuso del permesso ex art. 33 l. 104/92.
Tale decisione era poi stata riformata in Corte d’appello poiché si era ritenuto che l’atteggiamento della dipendente non fosse volto ad approfittarsi del permesso concessole, poiché era stato possibile rilevare un effettivo nesso causale tra assenza e assistenza, anche alla luce del fatto che quest’ultima era stata richiesta dalle 13, ma la modalità di fruizione dei permessi era giorni e non ad ore.
Il datore di lavoro ha impugnato la decisione in Corte di Cassazione, ma quest’ultima accogliendo il controricorso della dipendente ha valutato quanto segue:
Dunque, se pur nel caso di specie l’elemento decisivo per l’accoglimento della domanda della lavoratrice è stato costituito dalla tipologia giornaliera del permesso, non si può non rilevare che la Corte abbia delineato in maniera molto sostanziale lo svolgimento della assistenza prevista dalla l. 104/92 slegandola dai formalismi, che l’assistenza di questo tipo per sua stessa natura non può avere.