La sentenza n. 100/2023 del Tribunale di Teramo rappresenta uno dei provvedimenti più significativi degli ultimi anni in tema di straining lavorativo, una forma attenuata di mobbing ma non per questo meno dannosa sotto il profilo psicologico e professionale. Il caso – ampiamente istruito con prove testimoniali, documentali e perizia psichiatrica – riguarda una collaboratrice professionale sanitaria (CPS infermiere) dell’ASL di Teramo, che ha denunciato una lunga serie di comportamenti ostili, svalutanti e penalizzanti posti in essere dalla propria caposala.
Il Tribunale riconosce l’esistenza di una condotta lesiva integrativa di straining, condanna in solido l’ASL e la coordinatrice infermieristica e liquida in favore della ricorrente un risarcimento del danno non patrimoniale per invalidità permanente del 3%, pari a € 4.147,00, oltre rivalutazione e interessi
Una vicenda di frizioni crescenti e gestione gerarchica improntata a ostilità
La lavoratrice, in servizio nel reparto di Pediatria e Neonatologia, ha raccontato un peggioramento costante del clima lavorativo a causa di atti percepiti come volutamente ostili: difficoltà nella concessione dei permessi ex legge 104/92, dinieghi immotivati, mancata trasmissione dei documenti alla Direzione, valutazioni professionali inspiegabilmente negative, episodi di isolamento relazionale e perfino offese personali.
La ricorrente evidenzia che la caposala avrebbe frapposto «ostacoli sistematici […] alla fruizione […] dei permessi ex l.104/92» rivolti non solo a lei ma anche ad altre colleghe titolari degli stessi diritti
Un dato che il giudice ritiene rilevante: l’ostilità non era isolata né episodica, ma riconducibile a una modalità comportamentale consolidata e discriminatoria.
Altre condotte emergono con chiarezza dall’istruttoria:
- dinieghi ingiustificati di permessi e ferie, talvolta attribuiti a presunti “smarrimenti” delle richieste;
- rigidi divieti di svolgere attività di supporto al Pronto Soccorso e ai trasporti pazienti, poi risultati conformi al regolamento interno, e pertanto non valutati come vessatori, ma inseriti in un contesto di tensione più ampio;
- frasi denigratorie pronunciate in reparto, alcune non provate, altre invece confermate come offensive, tra cui un’espressione particolarmente grave rivolta alla lavoratrice in occasione dello sciopero della fame da lei intrapreso per motivi civici;
- abbassamento ingiustificato delle schede di valutazione annuali, poi corrette solo dopo contestazione formale e intervento degli organi superiori.
Il quadro ricostruito dal Tribunale mostra un insieme di comportamenti che, pur non integrando gli estremi del mobbing in senso tecnico (mancando una strategia persecutoria sistematica, programmata e dolosa nella sua totalità), configurano comunque un percorso di stress forzato lavorativo, ossia straining.
Mobbing e straining: la distinzione del Tribunale
Il giudice dedica ampio spazio a chiarire la differenza tra le due fattispecie. Il mobbing afferma la sentenza: «consiste in un comportamento ripetuto, irragionevole […] con scopo di causare danni fisici, mentali o sociali». Lo straining, invece, pur rientrando nella stessa area concettuale, si distingue perché:
- manca una strategia persecutoria sistematica;
- sono presenti episodi significativi ma non concatenati in un disegno unitario;
- il carattere vessatorio è comunque idoneo a produrre danni alla salute o alla dignità lavorativa.
Il giudice sintetizza così:
«si configura nei casi in cui il lavoratore sia vittima di situazioni lavorative stressogene in cui uno o più episodi, ancorché non sistematici e frequenti, producano un effetto di compromissione della serenità lavorativa». Proprio questa sembra la situazione della lavoratrice dell’ASL di Teramo.
Un ruolo decisivo lo gioca la CTU psichiatrica
Il Tribunale affida una consulenza tecnica d’ufficio a un medico psichiatra per accertare l’esistenza di un danno psichico.
Il CTU conclude che la lavoratrice presenta: «Disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso cronico di entità lieve», correlato con la vicenda lavorativa e non riconducibile a pregresse patologie psichiche.
Il giudice accoglie integralmente le conclusioni della perizia, ritenendole coerenti con l’esito dei test psicodiagnostici, la visita diretta e la storia clinica.
È un elemento decisivo: senza CTU, nelle cause di straining (come di mobbing) il danno psichico è spesso difficile da dimostrare.
La responsabilità dell’ASL e della caposala: violazione dell’art. 2087 c.c.
La sentenza riconosce la responsabilità contrattuale dell’ASL e della coordinatrice infermieristica. Il giudice ricorda che l’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. non si limita a tutelare la salute fisica, ma si estende alla salute psicologica e alla dignità professionale.
Interessante la precisazione sullo straining “orizzontale” (tra colleghi): il datore di lavoro risponde «in base alla posizione di garanzia e alla conoscenza della conflittualità» anche quando le condotte provengono da pari grado, a maggior ragione se si tratta di dirigenti o preposti.
Nel caso concreto, la coordinatrice aveva una chiara posizione di supremazia gerarchica e la responsabilità datoriale è piena.
Il risarcimento: invalidità del 3%, € 4.147 e interessi
Sulla base della CTU, il Tribunale accerta un danno biologico permanente del 3%, riconducibile allo straining. Utilizzando la tabella milanese, ed escludendo aumenti di personalizzazione perché:
«l’intensa attività pubblica e la normalità della vita affettiva della ricorrente escludono un impatto più grave sulle relazioni sociali», liquida € 4.147,00, oltre alla rivalutazione annuale ISTAT (indici FOI) e agli interessi legali sino alla data del soddisfo.
La domanda di risarcimento per demansionamento, invece, viene respinta per mancanza di prova concreta del pregiudizio professionale.
Straining: una figura giuridica sempre più riconosciuta
La sentenza conferma che anche episodi non sistematici, se gravi e ripetuti, possono integrare una forma di maltrattamento professionale risarcibile. Per le strutture sanitarie – contesto ad alta intensità di stress organizzativo – è un richiamo potente a rileggere politiche interne, formazione dei coordinatori e gestione delle risorse umane.
L’art. 2087 c.c. è una clausola generale potentissima
Il datore di lavoro deve prevenire non solo incidenti e rischi fisici, ma ogni forma di tensione organizzativa che possa compromettere salute e dignità.
Nel settore sanitario, dove l’autorità gerarchica è molto marcata, l’obbligo è ancora più rilevante.
La CTU psichiatrica è decisiva per la prova del danno
Nelle controversie di mobbing/straining, spesso la prova del danno psichico è il punto più debole del lavoratore. Qui la CTU è stata decisiva, avendo stabilito un chiaro nesso tra disturbo dell’adattamento e condotte della caposala.
La documentazione interna può salvare o condannare
Il caso mostra quanto sia importante una gestione documentale impeccabile: richieste di permessi, risposte formali, valutazioni periodiche del personale, regolamenti interni. Ogni elemento può trasformarsi in prova decisiva a favore o contro l’ente.
La personalizzazione del danno non è automatica
Il Tribunale richiama un principio fondamentale: l’aumento del risarcimento richiede un impatto eccezionale sulla vita personale e sociale, da dimostrare puntualmente. Un richiamo utile anche per gli avvocati che impostano tali cause.
La sentenza del Tribunale di Teramo offre una lettura equilibrata ma rigorosa della nozione di straining, confermando che la tutela contro le vessazioni lavorative passa attraverso:
- la prova del comportamento ostile,
- il nesso causale con il danno,
- la responsabilità del datore ex art. 2087 c.c.,
- la centralità della CTU medica.
Per chi opera nel mondo sanitario – dirigenti, coordinatori, infermieri, risk manager – questo caso è un monito chiaro: il benessere organizzativo è parte integrante dell’obbligo di sicurezza. E la sua violazione può comportare responsabilità economiche anche rilevanti.






